Al fine di rendere più agevole agli studenti il ricordo delle lezioni introduttive al corso di diritto penale II da me insegnato a Firenze nell’anno 2016, pubblico, in questa versione assolutamente parziale e incompleta, alcune riflessioni che sto maturando sul concetto di “specialità” nel diritto penale.
Come si comprenderà leggendo le pagine che seguono, in questo testo c’è qualcosa di più e di diverso rispetto a quello che può essere detto, ragionevolmente, in un corso di lezione del III anno di Giurisprudenza: nonostante tutto, ho ancora ben presente che l’insegnamento istituzionale, come le canzoni di Natale, va cantato secondo canoni tradizionali e senza indulgere nelle stranezze.
Oltre a qualche cosa di più, nel testo che segue c’è anche tanto di meno rispetto a ciò che si è detto a lezione. Manca la voce degli studenti, ed è un peccato perché, negli ultimi anni, anche da noi gli studenti hanno imparato a parlare: con tutti gli altri e non solo con il vicino di posto. Questo consente a chi insegna, se lo vuole, di smettere, a sua volta, di declamare la lezione come farebbe una radio. Forze prima contrapposte possono essere, ora, utilizzate sinergicamente: questa feconda interazione è una bella novità, tra le tante cose che non vanno.
Come dicevo, quello che qui si rende disponibile alla lettura è un ibrido necessitato. È un testo che mette fianco a fianco un percorso di studio molto personale (e qualche volta ancora criptico) e un discorso svolto con fine didattico, È una fermata prima del bivio; di qui in avanti bisognerà scegliere con decisione quale strada prendere e buttare via quello che non serve.
Nei successivi sviluppi di questo lavoro si tratterà più diffusamente delle parole e del nesso profondo che esiste tra queste e l’esperienza della visualità: nesso epistemologico fondamentale della cultura umana e dunque anche del diritto penale. Attorno alla visualità orbitano, in tutti gli idiomi, una congerie di verbi dalle sofisticate sfumature semantiche: osservare, vedere, guardare, spiare, mirare; per restare solo ad alcuni termini della lingua italiana. Questi verbi dalle intrecciate e profonde radici descrivono interazioni emotivamente molto pregnanti tra soggetto e realtà: c’è la preoccupazione di chi guarda e fa la guardia; il compiacimento di chi è guardato; l’entusiasmo di chi vede e comprende; il turbamento di chi getta la vista lontano, penetrando il futuro come fosse trasparente. La diversità esperienziale è colta, si diceva, da una molteplicità di verbi. Ma accanto ai verbi che descrivono i modi di vivere la visualità, vi sono le parole che ogni giorno riproducono pittoricamente, dentro di noi, l’esperienza stessa della realtà: si combinano in frasi, enunciati, sequenze capaci di animare, con gestaltica efficacia, l’immaginazione mimetica del mondo. È un discorso che tocca profondamente il diritto penale, dal momento che la sua “parte speciale” contiene uno dei più ricchi e concentrati giacimenti di tali formule, offrendo a chi le legge una vera e propria imagerie du mal.
Queste riflessioni sono dedicate al mio amico Mario Coloretti, medico e letterato dei suoi tempi. Voleva scrivere il più lungo romanzo della storia, ma un aneurisma si è messo di mezzo ed è in coma dal 2011. Ora sta lì: se ipsum curans; con il solo ricordo delle parole tiene in scacco sia la vita che la morte.