Quando nel novembre dell’anno scorso si è svolto a Palermo il Convegno “Traffico dei migranti: Sicilia, Italia, Europa” , i cui contributi sono di seguito raccolti, i molteplici problemi connessi al flusso di sbarchi sulle coste siciliane di soggetti provenienti dall’Africa avevano già raggiunto una gravità tale da attirare una attenzione pubblica al di là dei confini nazionali, specie nei paesi di destinazione finale dei migranti che sceglievano la Sicilia, e dunque l’Italia, come porta d’accesso all’Europa. Ne ha rappresentato una non trascurabile spia il crescente numero di delegazioni di parlamentari tedeschi del Bundestag e di singoli Lander, che si sono succedute in Sicilia nell’ultimo biennio per approfondire la conoscenza del fenomeno e verificare le modalità con cui viene affrontato. Il dato strutturale più significativo emerso di recente è tuttavia il cambio di paradigma segnato da una più decisa europeizzazione nella presa in carico del problema rispetto al passato. Nei documenti europei invero la consapevolezza dell’importanza del fenomeno migratorio non può dirsi certo nuova, specie a partire dall’abolizione delle frontiere interne anche per le persone ed alla contestuale crescita di interesse per una regolamentazione comune degli accessi dall’esterno. La svolta negli atteggiamenti collettivi in materia è però ricollegabile con ogni probabilità alla tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013: l’enormità del numero delle vittime di un unico naufragio impose con la forza dei fatti l’esigenza di ripensare la strategia nella reazione al fenomeno, e ciò tan-to in sede nazionale quanto appunto a livello europeo . Hanno così assunto crescente risalto i motivi umanitari connessi alla tutela delle vi-te in gioco: subito dopo quel tragico evento, con l’operazione Mare Nostrum la marina militare italiana ha spinto le operazioni di ricerca e salvataggio sino a 120 miglia dai nostri confini marittimi e al limite delle acque territoriali dei paesi sulla costa dell’Africa settentrionale, con costi ingenti per lo stato italiano ma riuscendo così a salvare in meno di un anno oltre 200.000 migranti. Solo durante il semestre di Presidenza italiana della Commissione Europea, nella seconda metà del 2014, si avvia una concretizzazione sul versante meridionale euro-mediterraneo dell’impegno affidato all’agenzia FRONTEX, creata dall’Unione Europea sin dal 2004 “per la cooperazione operativa alle frontiere esterne degli stati membri” . Peraltro, la recente condivisione europea dei problemi connessi ai migranti sul canale di Sicilia è segnata all’origine da una significativa limitazione della sfera dell’intervento umanitario: l’operazione europea denominata Triton, che dal dicembre 2014 ha sostituito la precedente italiana di Mare nostrum, aveva inizialmente un raggio ristretto entro 30 miglia dalle acque territoriali nazionali ed un budget iniziale ben inferiore (meno di un terzo) a quanto destinato dall’Italia all’altra. Una contraddizione riconducibile ad una sorta di riserva di fondo in non pochi osservatori di Mare Nostrum: gli interventi di recupero avanzati sino a poco lontano dalle coste di partenza, ancorché fondati su motivi umanitari, non rischiano forse di trasformarsi in un incentivo per i migranti e per le organizzazioni criminali che ne gestiscono il traffico? Certo, i componenti di queste ultime possono abbandonare ben presto gli scafi stracolmi di persone confidando sul recupero delle navi e gli stessi migranti vedono diminuiti i rischi connessi alle traversate della speranza. Tuttavia, l’idea che ridurre l’area di operatività delle azioni di salvataggio possa raggiungere l’equilibrio fra esigenze di tutela delle vite umane in gioco e gli avvertiti bisogni di controllo e contenimento del fenomeno appare, più che ipocrita, anche piuttosto ingenua: non solo infatti è disposta a concedere alla tutela delle persone solo lo spazio disegnato dai bisogni di controllo, ma anche trascura le reali cause strutturali del fenomeno migrat