Anche solo l'ampiezza della produzione dell'architetto Franco Minissi (1919-1996) basterebbe a motivare una ragionata disamina delle opere, sia per rimuovere la patina di oblio che, a tre lustri dalla scomparsa dell'autore, purtroppo sembra già ricoprire il suo lavoro, sia per rispetto di un'epoca, il secondo dopoguerra italiano, che ha offerto spunti preziosi e realizzazioni di alta qualità. La critica architettonica ha esaltato le figure di Giovanni Michelucci, Carlo Scarpa, Franco Albini, Mario Ridolfi, Ignazio Gardella, mentre ha troppo spesso accostato Franco Minissi alla sola protezione dei siti archeologici. Una rilettura critica delle sperimentazioni di Gela, Eraclea Minoa, Piazza Armerina, assieme alle realizzazioni di Villa Giulia, del Museo di Agrigento o dell'Auditorium del SS. Salvatore di Palermo, può far conoscere la coerenza concettuale di questo architetto, particolarmente attento al connubio fra esigenze del presente e conservazione delle antichità, a qualsiasi scala. È un dialogo col passato, il suo, affinato da una sensibilità di museo grafo, che emerge nella propensione verso flessibilità e reversibilità dell'intervento, lasciando ai posteri la possibilità di rimuovere le aggiunte senza offesa del monumento, di fronte a nuove esigenze e interpretazioni. Gli aggiornamenti museografici delle ultime decadi, però, minacciano di eliminare ogni traccia di un modus operandi che può ancora offrire valide riflessioni: una leggerezza di accostamento e una ricerca di trasparenza per niente casuali, bensì fondate sulla consapevolezza storica di un progettista che vagalia, che per dirla con parole di Cesare Brandi, è riuscito ad essere "ad un tempo ossequioso dell'antico e assertore del moderno".