Congedo all’Italia
Chi ti tradì? Qual arte qual fatica
O qual tanta possanza
Valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Questi sono i versi da 31 a 35 dell’ode “All’Italia” di Giacomo Leopardi (1818).
Il lamento sulla caduta, i secoli di sospiri e invettive, sono già negli archivi del patrio duolo. Ci staranno, credo, per sempre.
Non sarà tragedia per nessuno. In settant’anni, le svariate plebi che si chiamarono “il popolo italiano”, si sono abituate a vivere senza “la Patria”, le cui funzioni sono passate al più comodo “paese”.
L’assuefazione si è completata con le nuove generazioni. Le più vecchie ebbero qualche fatica a liberarsi del patetico sogno. Credettero di non poter vivere senza patria, fino a quando la poltiglia dei papponi e ladroni non si convinse e persuase gli altri che così si vive meglio.
Da monarchia e fascismo l’Italia uscì ferita. Dalla repubblica comunista e democratica, esce demente e belante, eppur canta e danza senza pensieri. Settant’anni ancora, e, diranno gli esperti, l’Italia fu, e non è più.