«Mi sono davvero divertito. Arrivederci e grazie »: il 21 marzo 1979 Romain Gary terminò con queste lapidarie parole la stesura di questa piccola opera. Due giorni prima di togliersi la vita con un colpo di pistola nel suo appartamento di rue du Bac a Parigi, precisamente il 30 novembre 1980, provvide a inviarla al suo editore, Robert Gallimard, con la raccomandazione di renderla pubblica previa intesa con Diego Gary, suo figlio. Il 17 luglio 1981 Gallimard diede alle stampe l’opera, e la pubblicazione costituì un evento che mise letteralmente a soqquadro l’intera società letteraria parigina. Quelle paginette rivelavano, infatti, che Émile Ajar, il romanziere vincitore del Goncourt con La vita davanti a sé, l’inventore di un gergo da banlieue e da emigrazione vent’anni prima di Pennac, il cantore di quella Francia multietnica che cominciava a cambiare il volto di Parigi, altri non era che Romain Gary, l’autore bollato dallo stesso comitato dei lettori della narrativa Gallimard come uno scrittore finito, «a fine carriera».
Lette oggi, a 35 anni di distanza dalla pubblicazione, esse non appaiono soltanto come la divertita confessione di una delle più grandi «mistificazioni letterarie» mai avvenute, ma anche come un autentico «testamento letterario» che getta luce sull’idea di letteratura che ha guidato l’intera opera di Romain Gary. Un’idea fondata, come scrive Riccardo Fedriga nella postfazione a questa edizione, su «una vera e propria “poetica del fare pseudo”, cioè diventare un personaggio che non si appartiene mai, inafferrabile, sempre altro sia a se stesso sia da se stesso».
Émile Ajar, Fosco Sinibaldi, Shatan Bogat, Romain Gary stesso, pseudonimo di Roman Kacev, non sono altro, da questo punto di vista, che nomi di questa poetica, tentativi, cioè, di uscire dall’«impostura dell’esistenza» reale e di vivere la propria autentica esistenza nella verità della letteratura.
«Uno dei più immaginifici inventori di storie e di se stesso è stato Romain Gary».
Wlodek Goldkorn, l'Espresso
«Gary/Ajar crea un linguaggio nuovo da banlieue e da emigrazione, che anticipa la realtà mettendo in scena il ritratto di una società francese multietnica».
Fulvio Panzeri, Avvenire