«Siamo giunti al dunque. La foiba è là, sotto di me, la luna ne rischiara una parte esposta alla sua luce. Un’altra, invece, è completamente oscura, non si riesce neppure a scorgerne il fondo. Siamo arrivati! L’alt intimato dalla guardia mi dice che in quel posto verrà messa fine
alla nostra vita».
Nella frazione di un secondo si è visto costretto a decidere della sua vita. Se stare fermo e finire ammazzato sotto i colpi della mitragliatrice, oppure saltare giù e morire all’istante nel baratro.
Era il 14 maggio 1945 quando l’ufficiale comandante istriano Graziano Udovisi venne trascinato dai partigiani titini sull’orlo della foiba di Fianona per essere trucidato. Scampò alla morte per miracolo, liberandosi i polsi dal fil di ferro e risalendo in superficie da una cavità di circa trenta metri. Prodigiosamente riuscì a salvare un altro commilitone compagno di sventura, afferrandolo per i capelli. Furono i soldati nemici a costringerlo a marciare scalzo sul bordo di quel crepaccio: una punizione per aver tratto in salvo a Capodistria, su una motobarca, i suoi soldati ricercati dalle truppe slave.
Questo libro è la testimonianza del calvario di un italiano sopravvissuto alle foibe. La sua odissea, terminata dopo due anni di prigionia con l’accusa di collaborazionismo con i tedeschi, s’intreccia con digressioni sui risvolti sociopolitici della guerra. Attraverso il ricordo, Udovisi ripercorre i giorni del carcere, le torture subite, i crimini consumati sotto i suoi occhi, la fuga. I flashback degli orrori bellici si dipanano in un lucido excursus che copre quattro anni di storia: dall’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca del Nord Italia e la nascita della Repubblica Sociale, al settembre 1947, quando Udovisi viene liberato a Civitavecchia senza neppure la carta di rilascio.
Tormentato dai fantasmi del passato, il sopravvissuto s’interroga sul senso d’italianità perduto, sull’iniquità di una guerra che ha combattuto in nome dell’amore per l’Italia, sui rapporti a suo dire “deviati” fra una parte della magistratura e i responsabili delle stragi di italiani.
Quella di Udovisi è una ferita che non cessa di sanguinare, una testimonianza ancora viva che inevitabilmente farà discutere.
Ma resta una voce preziosa, l’ultima, che squarcia il lungo silenzio imposto dalle vicende politiche su un controverso capitolo della nostra storia, un ricordo doloroso che ha un prezzo troppo caro: le migliaia di vittime delle foibe.
Graziano Udovisi (Pola, 1925 - Reggio Emilia, 2010) è stato dal settembre 1944 comandante del Presidio di Portole d’Istria e di Rovigno e tenente della Milizia Difesa Territoriale fino al 1945. Sul finire della guerra, per salvare i suoi militi, si sposta da Rovigno a Pola su una motobarca, un gesto che pagherà con torture e galera. Processato dagli italiani a Trieste per «collaborazionismo col tedesco invasore», dichiara di aver difeso il suolo italiano dall’esercito slavo. Il Tribunale non gli crede e lo imprigiona prima a Padova, poi a Venezia, Udine, Gorizia, Trieste e Civitavecchia. Viene scarcerato nel 1947. Nel dopoguerra si stabilisce nel mantovano, poi nel reggiano dove insegna alle elementari di Novellara e Rubiera.