Quando Paul Verlaine, nel 1894, si mise a scrivere le sue "Confessioni", a dieci soldi per riga, era al tempo stesso il Principe dei Poeti, l’annunciatore glorioso della poesia maledetta, e una sorta di patetico barbone, che passava lunghe ore davanti all’assenzio nei caffè di Saint-Germain, fra un soggiorno e l’altro nelle desolate camere degli ospedali pubblici. Nei suoi cinquant’anni aveva conosciuto, e aveva cantato, le esperienze più opposte: l’ovattata infanzia borghese in provincia e il turbinoso sodalizio con Rimbaud, la vita dell’impiegato e la vita del vagabondo, la blasfemia e la conversione religiosa, Satana e la Vergine, amori delicatissimi e amori grandiosamente osceni, la prigione e la gloria incontestata. Ma con le sue "Confessioni" Verlaine non ha certo voluto introdurci pomposamente ai suoi segreti, che sapeva custodire tanto bene, proprio nella sua irriducibile svergognatezza: ha voluto darci soltanto delle «note della sua vita», fuggitive, tracciate con una matita nervosa e svelta, accennando e passando oltre. Il risultato è prezioso: attraverso le vicende tormentate, e talvolta grottesche, della sua educazione sentimentale e letteraria, percepiamo subito nettamente il suo inconfondibile tono, malinconico e leggero, torbido e innocente, un tono che, una volta percepito, conquista per sempre – sicché giustamente Léon-Paul Fargue poteva scrivere, nel bellissimo saggio che precede questa edizione: «Le sue "Confessioni" potrebbero essere quelle del primo venuto, e se ne distinguono soltanto per la giustezza del tono e l’impalpabile abbondanza del genio».