I dati erano conosciuti. Che Parise fosse figlio di padre ignoto e che questo fosse stato per lui un problema, lo aveva raccontato lui stesso più volte, in modo diretto e in qualche racconto.
Che la madre fosse una donna “temibile” e amata, che certi luoghi come Venezia Milano Roma o il suo «Veneto barbaro di muschi e nebbie» avessero avuto per lui un’importanza determinante, e che i suoi viaggi avessero reso il suo sguardo più acuto e lungimirante, che infine la malattia e il senso della vita breve avessero da sempre influito sulla sua visione del mondo e sulla sua sintassi, tutto questo era noto. Ma per metterlo in movimento e ricercare i movimenti remoti di una vita che si intreccia con la scrittura e diventa destino, il destino di un autore tra i più originali del nostro Novecento (anche perché trova la sua origine solo in se stesso); per combinare tutti questi dati in una trama coerente fino a darci un’immagine di Parise che prima non ci era mai apparsa così vivida e toccante; per fare tutto questo occorreva l’acume del saggista e del critico, ma anche la libertà del narratore con la capacità di muovere questi dati a sua disposizione senza far mai debordare la sua fantasia nell’arbitrario.
E questo ha fatto Silvio Perrella col suo libro saggistico-narrativo intitolato Fino a Salgareda e dedicato appunto a Goffredo Parise. Perrella non ha mai conosciuto Parise (per ragione anagrafica), ma con questo suo saggio sembra essersi a lui avvicinato di persona creando una confidenza e un’amicizia con lui che si trasmette anche al lettore. (Raffaele La Capria)