Le Lettere di prigionieri di guerra italiani ritraggono il momento in cui le voci degli umili – da sempre relegate nell’oralità dei dialetti – si riversarono come un’ondata di piena nell’italiano scritto, spinte dalle urgenze tragiche della guerra, della fame e della lontananza. La loro comparsa segnò un punto di svolta per gli studi storici e linguistici, che si aprirono a una prospettiva dal basso sulla guerra e sulla lingua. Oggi quest’opera capitale del Novecento italiano ed europeo viene riproposta dal Saggiatore in una nuova edizione, che grazie a importanti scoperte filologiche completa le lettere con i nomi dei mittenti, finora coperti dall’oblio, e con preziose correzioni che restituiscono i testi alla loro integrità.
Le Lettere non avrebbero mai visto la luce se nel settembre del 1915 Leo Spitzer, allora giovane
filologo romanzo, non avesse assunto il ruolo di censore per il ministero della Guerra austro-ungarico. Il suo compito era filtrare la corrispondenza dei prigionieri italiani: una quantità immane e senza precedenti di lettere, scritte da uomini e donne poco o per nulla scolarizzati, spesso più a loro agio con gli attrezzi del lavoro che con una penna o una matita, e quasi sempre più abituati al dialetto che alla lingua. Se si sforzarono di scrivere, fu perché l’abisso tra il mondo che conoscevano e il paesaggio umano che si trovavano di fronte era troppo profondo, e troppo fragili le loro vite davanti all’enormità della guerra.
Soltanto il caso, dunque, fece sì che un materiale simile finisse tra le mani di quello che è oggi riconosciuto come il massimo esponente della critica stilistica, forse l’unico studioso in grado di comprendere l’importanza di scritti che – in una costante lotta tra oralità e scrittura, convenzioni faticosamente abbozzate e timidi tentativi di esprimere sentimenti universali – raccontavano la quotidianità logorante dei campi e i meccanismi disumanizzanti della guerra, la fame, l’amore, l’ironia, il tentativo di restare aggrappati a una normalità impossibile.
Le Lettere di prigionieri di guerra italiani sono il risultato di uno studio umanistico che è rifiuto del «tanfo polveroso di una scienza squallida», ricerca inesausta dell’uomo, ascolto «della vita dove essa pulsa più fervida».