«Non c’è niente che io guardi che non vedano anche gli occhi tuoi. Mai mi sei stata vicina come adesso che sei morta. Vedi tutto, ascolti tutto, fai tutto quello che faccio io. Non ti ho mai portata con me da nessuna parte. Tu neanche, ma tu non andavi da nessuna parte.»Una figlia racconta la madre, una donna difficile, inflessibile, con la quale non si può che vivere in battaglia. Racconta tutto, senza reticenze: scrive del corpo trasfigurato dalla malattia, della morte che arriva. Parla alla madre come non ha mai fatto in vita, ci combatte, infine vi si immedesima. E impara il modo di lasciarla andare.Una figlia si affida alla scrittura per conservare la memoria della madre. E, per non perderne nulla, racconta tutto: anche il brutto, il terribile, l’osceno. La malattia. Nel racconto, fin dalle prime pagine, la malattia trasfigura il corpo della madre e diventa l’ultima occasione della figlia per ripercorrere le tappe di un rapporto conflittuale e doloroso, dalle durezze dell’infanzia, alle incomprensioni dell’adolescenza fino all’immedesimazione nell’identico ruolo di madre. E per riuscire finalmente a sentire prossima e familiare quella donna inflessibile e remota.Scritto in una lingua arroventata e convulsa, in capitoli brevi come fiammate, Gli ultimi occhi di mia madre si inserisce nella tradizione dei romanzi che raccontano l’immedesimazione e il distacco, la differenza e la ripetizione tra madri e figlie e figlie e madri. Ma se ne distingue per violenza e lucidità, e riesce a raggiungere ciò che sta oltre le storie singole, per raccontare il corpo, la morte, la maternità.