Perché vogliamo sapere quali dei nostri “amici” sono usciti insieme nel fine settimana e quello che hanno fatto? Perché abbiamo autorizzato Facebook a mediare la nostra vita privata? Sono alcune delle domande che Katherine Losse ci pone in questa ironica autobiografia raccontandoci i suoi cinque anni trascorsi nel cuore del social network. Dopo aver interrotto un dottorato alla John Hopkins di Baltimora e senza prospettive, Losse arriva in California e sale per caso a bordo della squadra di Facebook. Nel 2005 il sito era una giovane startup di Silicon Valley, e Losse era lunica donna in una compagnia di informatici. Eppure, da umanista, riesce inaspettatamente a scalare le tappe e a diventare l’autrice dei testi di Mark Zuckerberg. Intanto la compagnia accumula milioni di utenti e si lancia alla conquista del mondo. Ma gli uffici di Facebook rassomigliano a una confraternita di Harvard, gli informatici pensano solo a raccogliere dati nel disprezzo della sensibilità degli utenti, le donne contano meno di zero e, se la missione dichiarata del sito è quella di connettere la gente, i suoi dipendenti sono sempre più soli e alienati nella loro bolla. Su tutto, un fiume di soldi sembra fugacemente materializzare il sogno americano. Losse è sempre più scettica sui fini e gli obiettivi del gruppo, e al nuovo consumo di informazioni personali che alimenta. Facebook è un potente mezzo di comunicazione, o un sottile strumento di controllo? Il suo resoconto è un illuminante spaccato dell’ideologia alle spalle di Facebook ma anche una denuncia del tentativo di convertire la vita in un’applicazione tecnica. Ci si può fidare di Facebook? Una volta visto dall’interno, “ci piace” davvero?