La bara di una giovane filippina, Aurora, arriva all’aeroporto di Manila da Jeddah in Arabia Saudita dove, secondo le autorità locali, è misteriosamente annegata. È una delle tante, troppe vite cadute nella invisibile mattanza della diaspora del popolo filippino. Ma il corpo non è quello di Aurora. Aurora è viva. Fa la cantante al Flame Tree, un night club di provincia. Nella bara c’è sua sorella Soledad, la cui vita di dolorose peregrinazioni ha avuto brutalmente fine. Un poliziotto innamorato di lei la scorta a reclamare il corpo… Questo è solo l’inizio dello stupefacente romanzo di Dalisay, piccolo capolavoro della contemporaneità, che sullo sfondo del mistero che muove l’azione è capace di mescolare un’estetica leggera e sognante alla Wong Kar-Wai con l’urlo di denuncia delle condizioni in cui i migranti filippini sono costretti a vivere. E se la nostra indifferenza fosse acuita dall’innata gentilezza e capacità di integrazione di questo popolo, che pur vivendo accanto a noi ci è totalmente sconosciuto? Soledad è una storia d’amore, un intrigo, una denuncia sociale.