«Dove sono cresciuta, le ragazze finiscono in manicomio, oppure lapidate. Le più fortunate vengono date in sposa a un membro di un clan rivale. Sapevo che, nonostante le idee liberali di mio padre e tutti i suoi sforzi, nonostante le storie che ci raccontava, non sarei mai stata davvero libera.» In Waziristan, la regione più conservatrice del Pakistan dei talebani, una donna non è autorizzata a lasciare la casa di famiglia a meno che non si sposi. Le ragazze indossano il velo ed escono solo se accompagnate da fratelli, padri o cugini che possano vigilare sul loro onore. Eppure, a cinque anni, Maria decide di bruciare tutti i suoi vestiti. Vuole giocare, correre, andare in bicicletta, cacciare, arrampicarsi sulle montagne, e l’unico modo per farlo è travestirsi da maschio. Poi scopre lo squash, che in Pakistan è il secondo sport nazionale. Si entusiasma: diventerà una campionessa, anzi, un campione.
«Se mai dovessero scoprire cos’hai fatto, Maria, verranno a darti la caccia, credimi. Verranno a cercarti e ti uccideranno» l’aveva avvertita il padre. «Non c’è qualcuno in particolare, Maria: sono loro. Nessun volto, nessuna anima: sono bombe e pallottole e grida ad Allah che si levano tra le montagne.» Avendo trasgredito alla sharia, Maria entra nel mirino del fondamentalismo, scopre la paura, e il padre la costringe a rifugiarsi in Canada. «Mi sentivo come se mi fossi buttata da una scogliera e stessi precipitando nel vuoto, sperando ardentemente che laggiù ci fosse qualcuno pronto a prendermi. Una volta mio padre aveva detto che a me bastava una racchetta per essere felice. Ho dovuto lasciare la mia terra per rendermi conto che in realtà mi ci sarebbe voluto molto di più.»