Uno dei capolavori delle letteratura del '900 nella pregevole traduzione di Bruno Fonzi Una lunga fila di emigranti è in marcia verso la città polacca di Lodz: fra loro una variopinta comunità di ebrei ortodossi che intende guadagnarsi da vivere con la tradizionale filatura a telaio. Sarà il seme dal quale nasceranno grandi industrie tessili capaci di imporre le loro merci in tutta l’Europa. In questo piccolo e operoso mondo, dove il tempo è scandito dal lavoro e dalle pratiche religiose, nascono i due figli del pio Reb Abraham Hirsch Ashkenazi, opposti nel carattere fin dalla prima infanzia: Jakob Bunin, vitale e generoso, rappresenta la forza naturale e l’istinto gioioso di vivere, mentre Simcha Meier, introverso e abile negli affari, riversa la sua febbrile inquietudine nell’imprenditoria. La parabola dell’esistenza porterà Jakob ad affermarsi con il suo talento di comunicatore, mentre Simcha toccherà le vette del capitalismo industriale grazie a un miscuglio di cupidigia e lungimiranza che tutto travolge in nome del profitto. Attorno a loro, tra la fine dell’Ottocento e il primo conflitto mondiale, si svolgono le grandi vicende della Storia e gli eventi minimi di una folla di personaggi uniti dalla comune spiritualità ebraica, che sfocia in conflitti generazionali, al punto di indurre i giovani a un progressivo allontanamento dalla tradizione dei padri, fino a esperienze estreme come la rivoluzione, la negazione degli affetti familiari e l’affermazione dell’individualismo assoluto. Per Jakob e Simcha, divisi per quasi tutta la loro vita, il risultato è il distacco dal giudaismo, con la conseguente perdita della propria identità per costruirsi una rispettabilità borghese. Ma tutto è inutile, destinato al fallimento. Insieme al capitalismo si sgretolano i destini di uomini e donne travolti dal tempo e dalla Storia. Dei fratelli Ashkenazi, riuniti in un ultimo, disperato abbraccio, non resterà che l’infinita vanità del tutto. Israel Joshua Singer racconta la grandiosa e feroce epopea borghese degli ebrei polacchi in un romanzo insieme corale e individuale, nel solco del grande realismo ottocentesco ma percorso dalle inquietudini del Novecento: un magistrale affresco che si pone come il pendant ebraico de
I Buddenbrook di Thomas Mann, e che spiega perché il premio Nobel
Isaac Singer disse dell’amato fratello: «Sto ancora imparando da lui e dalla sua opera».
ISRAEL JOSHUA SINGER (1893-1944) trascorse con il fratello minore
Isaac Bashevis l’infanzia a Varsavia, dove il padre era rabbino, ma nel 1918 lasciò la famiglia per trasferirsi a Kiev, dove lavorò come correttore di bozze. Tre anni dopo fece ritorno a Varsavia. Esordì con i racconti in yiddish di
Perle (1922), avviando nel contempo una serie di corrispondenze per il quotidiano newyorkese
Jewish Daily Forward. Nel 1932 il romanzo
Yoshe Kalb, che descrive la vita di una comunità chassidica in Galizia, conobbe uno straordinario successo, soprattutto nella versione teatrale. Nel 1933 emigrò negli Stati Uniti. Dopo
I fratelli Ashkenazi (1936), unanimemente considerato il suo capolavoro, scrisse ancora racconti e commedie. Nel 1946 apparve
Da un mondo che non c’è più, che raccoglie una parte delle corrispondenze per il
Jewish Daily Forward e costituisce una sorta di autobiografia parallela a quella che il fratello scrisse con i racconti di
Alla corte di mio padre.