Se ci mostrassero una serie di immagini di prodotti industriali – automobili, elettrodomestici, computer, cellulari – e ci chiedessero di metterle in sequenza cronologica, è probabile che non sbaglieremmo, anche se ignorassimo i requisiti tecnici e prestazionali di quegli oggetti. A guidarci basterebbe la loro forma, segnale inequivocabile di maggiore o minore attualità. L’alleanza tra la forma e il tempo di cui diventa espressione è insieme ragion d’essere e principio regolatore del design. Discendente dalla nobile schiatta dell’architettura e dalla meno titolata arte manifatturiera, il design ha dato corso alla sua natura di figlio ribelle, febbrilmente votato all’innovazione, tra guizzi autoriali e consapevolezza dei vincoli tecno-economici posti alla sua peripezia intellettuale, e sempre in fuga dall’etichettatura metodologica e disciplinare. Francesco Trabucco, che lo pratica e lo insegna, ed è in materia un’autorità internazionale, proprio dal carattere sfuggente del design riesce a ricavare il suo identikit. Per tracciarlo occorre sfogliare l’intero vocabolario del nuovo fiammante. Il lavoro di design infatti attribuisce nuove qualità estetiche ad artefatti materiali o digitali già esistenti, ne inventa di nuovi, allestisce nuovi scenari d’uso per le merci, compila nuovi prontuari di senso per comportamenti inediti, si avventura a progettare addirittura l’esperienza nei nuovissimi territori virtuali. Un po’ artigiano, un po’ artista, ma soprattutto soggetto collettivo che risponde alle logiche e alle strategie di impresa, il designer oggi si riconoscerebbe a stento nel creativo puro celebrato dalla mitologia della modernità. Assomiglia molto di più all’ultimo approdo della progettazione, la «piattaforma di prodotto»: un palinsesto aperto, in continuo aggiornamento, che anticipa e integra le sollecitazioni del mercato.