Le cose ci vengono incontro. E noi rispondiamo alla loro chiamata. Ma troppo spesso la nostra unica preoccupazione è quella di aver “ben inteso” che cosa sia quel che ci viene incontro.
Una preoccupazione che ci guida anche in rapporto alle cosiddette opere d’arte. Si tratti di poesia, di arte visiva, di musica, ma si tratti anche di un’opera filosofica, o delle pagine di un testo religioso, in ogni caso, siamo tutti sempre istintivamente preoccupati di capire bene e non fraintendere. Facciamo di tutto per impadronirci del significato e di tenerlo ben a mente. Come se quest’ultimo fosse essenzialmente indipendente dal “modo” del suo presentarsi.
E se fosse il caso di imparare a riconoscere, invece e innanzitutto, proprio il “ritmo” con cui l’essente sempre si fa esperire?
D’altro canto, quello che siamo soliti chiamare ‘significato’ non potrebbe neppure costituirsi, indipendentemente dal ritmo del suo manifestarsi; ossia, indipendentemente dalle movenze con cui si concede allo sguardo orizzontale dell’intelletto, costringendolo quasi sempre a bruschi volteggiamenti, sospensioni, curvature impreviste, andate e ritorni, obliqui attraversamenti.
Troppo a lungo ci siamo accontentati di ‘comprendere’ le cose dell’arte per il tramite di una catalogazione formale e stilistica, che ci ha comunque consentito di rimuovere il fatto che l’opera si dà a noi, anche e innanzitutto, con un ‘ritmo’ suo proprio e che forse proprio in quest’ultimo è custodito il suo enigma più profondo.