Le mafie continuano ad essere questo e altro in un paese ancora troppo distratto di fronte a certe tematiche. Lo stesso teatro, «a parte alcune nobili e in qualche caso eroiche eccezioni», come scrive Enrico Bernard, finora «è stato poco ispirato dal tema della mafia».
Maria Pia Daniele, Elisabetta Fiorito e lo stesso Enrico Bernard, con questa pubblicazione, si muovono in controtendenza e raccontano le mafie nella loro quotidianità, nelle tante sfaccettature, ma soprattutto da altri confini di senso.
Nell’«Assolo», Bernard racconta la storia di un giornalista di inchieste che, con la famiglia, si trasferisce in Emilia Romagna per un più tranquillo lavoro nella redazione di un piccolo giornale di provincia. Ma quando sembra aver trovato una dimensione più umana, scopre di essere sulle tracce degli ‘ndranghetisti che pensava di aver lasciato in Calabria. Bernard scava nell’aspetto psicologico del protagonista, nella paura di ritorsioni, nella sua vulnerabilità di marito e di padre. Niente è come sembra nella storia raccontata da Bernard, regista, saggista e fondatore del teatro s-naturalista, ma soprattutto attento osservatore di dinamiche sociali.
Elisabetta Fiorito, giornalista parlamentare e graffiante autrice di testi teatrali e monologhi, racconta la storia di Don Antoni, proprietario terriero costretto a distruggere il raccolto di arance perché i costi di produzione superano di gran lunga il guadagno. Nonostante le difficoltà, Don Antoni non cede alle lusinghe della ‘ndrangheta che vorrebbe trasformare il suo terreno in una discarica di rifiuti speciali. È una commedia dal finale scoppiettante che dà forza alla speranza, quella a cui si aggrappano ancora molti calabresi per resistere alla ‘ndrangheta.
Maria Pia Daniele, brillante autrice e regista napoletana, si ispira alla storia di Rita Atria, la giovane diciassettenne siciliana che aveva cominciato a collaborare con il giudice Paolo Borsellino. Anche “Il mio giudice” è un inno alla speranza. Per Maria Pia Daniele, la morte di Rita come quello del "suo" giudice sono servite a svegliare tante coscienze.
Proprio, Paolo Borsellino, prima di morire, aveva sottolineato l’importanza di non considerare la lotta alla mafia «una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale», capace di coinvolgere «tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».
Le mafie, da sempre, sono minoranze organizzate. Se finora hanno avuto la meglio è perche sono state contrapposte da maggioranze disorganizzate. Forse è il momento di invertire questa tendenza, superando le reticenze, di cui parla Bernard, e coniugando la speranza auspicata da Fiorito e Daniele per spazzare i troppi silenzi di cui si servono i boss per rafforzare la loro presa sul nostro futuro.
Nel teatro italiano il tema della mafia, differentemente da quanto accaduto nel cinema e nella narrativa, è rimasto piuttosto in ombra. Dall’ottoce tesco I mafiusi della Vicaria, poi rivisitato da Sciascia, a Sciascia stesso con L’onorevole e poi a L’ultima violenza di Giuseppe Fava, altri titoli importanti su un argomento scottante e centrale come quello della violenza mafiosa se ne contano non più di una dozzina.
Tuttavia non si è lontani dal vero constatando che mentre la mafia rappresenta un tema sfruttatissimo dal cinema, dal neorealismo italiano ai filmoni di hollywood come Il padrino, dalla serie tv della Piovra a quella più pittoresca e kitsch dei Soprano, il teatro italiano, per dirla senza reticenze, a parte alcune nobili e in qualche caso eroiche eccezioni, è stato generalmente poco ispirato dal tema della mafia. Quand'anche, con qualche sforzo, si arrivassero a citare venti o trenta testi di una certa importanza, saremmo sempre al di sotto della quota minima di attenzione sul fenomeno storico e politico mafioso.