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Cinquecento giorni trascorrono, nella vita di Napoleone Bonaparte, tra il crollo dell'Impero, l'esilio all'Elba, i Cento giorni e la partenza, infine, per Sant'Elena. Meno intensi delle poche settimane che passano tra l'avventurosa riconquista del trono e l'ultima disfatta; meno drammatici degli anni trascorsi in un'isola abbandonata nell'Oceano Atlantico, questi cinquecento giorni – che gli storici non hanno mai considerato nella loro unità – mettono Napoleone, quasi come un moderno Edipo, al crocevia di tutte le possibilità di esistenza e di storia.
Al loro inizio c'è un tentativo di togliersi la vita, a Fontainebleau, nelle stanze vuote di un palazzo vuoto da cui tutti si sono prudentemente allontanati, lasciando solo l'Imperatore in disgrazia. Alla fine, ancora una tentazione di togliersi la vita, sul vascello inglese che lo conduce, ormai prigioniero, a Sant'Elena. In mezzo, un tempo per così dire intermedio – 500 giorni non sono né pochi né molti – scandito da scelte obbligate: partire, restare, combattere, fuggire. Scelte che si sbaglierebbe a immaginare rivolte solo alla vittoria, o peggio alla rivincita. Esse sono, più spesso, dettate, al contrario, dall'idea della sconfitta, dall'incubo del congedo.
Come uscire di scena è, per Napoleone, in questo finale di partita, molto più importante che restare a tutti i costi sul palcoscenico. Come uscire di scena, rendendo per sempre indimenticabile ciò che egli ha fatto nei giorni della fortuna, evitare di negarlo con un comportamento poco appropriato, fare che la propria vita, e la storia che in essa si è scritta, non perda di significato, come molti, troppi, intorno a lui vorrebbero fare e provare a fare in quei lunghi, brevi 500 giorni.
«Nella sera d'inverno in cui Napoleone lascia l'isola d'Elba per arrischiare l'ultima, la più leggendaria delle sue molte avventure, un libro rimane aperto sul tavolo dello studio di quella Villa dei Mulini che per dieci mesi era stata la piccola, modesta reggia del suo regno in miniatura. Forse nella fretta inevitabile delle ultime ore il suo illustre lettore lo ha semplicemente dimenticato. Forse ha voluto immaginare che il suo domani non fosse quello di correre dietro una nuova impresa, una nuova, improbabile vittoria, ma, piuttosto, di sedersi alla scrivania, come era accaduto tante volte nei mesi in cui l'esilio gli aveva regalato una inattesa pigrizia, e riprendere la lettura arrivando, stavolta, fino in fondo.
La conclusione del libro, in realtà, Napoleone la conosceva bene e proprio per questo – possiamo pensare – non si era affrettato a terminarlo.»