Bonaventura Tecchi ha lasciato un vuoto nella letteratura che la cosiddetta contemporaneità non ha colmato, distratta da altre mode e da altri valori, quanto mai – mode e valori – fragili, inutili e fuorvianti, privi di salde basi e di sofferte rinunce, e di quella che può essere definita “fede” nei contenuti. Ci limitiamo, perciò, a dire che Tecchi è stato uno scrittore raro, uno di quelli che non esistono più e che la produzione letteraria, nelle acque in cui naviga oggi, non riuscirà mai a sostituire per stile e argomenti. Perché? Perché la sua opera, tra inquietudine e angoscia, sogno e realtà, ha seguito semplicemente un’idea di bene e l’annotazione autografa (“nascere non per partecipare all’odio, ma per partecipare all’amore”) tratta dal suo Diario inedito lo conferma e perché è riuscito a percepire la dimensione dell’essere e a mantenere saldo quel legame con la tradizione e con la classicità, le quali hanno geologicamente rafforzato nel tempo la stratificazione della scrittura, per lasciarci qualcosa che restasse nella precarietà degli accadimenti e dell’umano sconforto. Tecchi si apre al mondo perché il mondo è in lui, come in lui convivono quell’antico sogno e quell’antica realtà, vale a dire la lezione della vita, con le sue voci popolari, le sue verità, i suoi fantasmi. Si tratta di un uomo-poeta che oscilla tra l’affetto e la serenità, il disordine e la contraddizione, la semplicità e la chiarezza, l’armonia e l’oscurità, ovvero il complesso groviglio dentro di noi. In questa officina segreta Tecchi ha lavorato in silenzio, criticamente, narrativamente, col senso antico della misura delle cose e la consapevolezza dell’avventura dell’uomo (e di tutte quelle sue cose) sulla terra. (L.M.)