Giuseppe Giacosa è una figura importante nel nostro panorama letterario: drammaturgo, scrittore e librettista (collabora con Illica per le tre celebri opere di Puccini) e sicuramente una store da riscoprire. In questa opera teatrale, che resta una delle migliori da lui scritte, torna all’intuizione felice del primo capolavoro (Tristi amori): il dramma esistenziale, lo scandaglio psicologico, ma anche il risvolto sociale. Siamo di nuove nel cuore della borghesia delle professioni della Padania, senza più le certezze esaltanti del self-made man compiaciuto della strada che ha percorso, e, anzi, con le prime inquietudini sul proprio destino, sulla capacità di continuare ad essere egemone. Giovanni, il borghese al centro del fallimento finanziario, si salva ma non è meno cattivo dei cattivi che si perdono. Giacosa applica la stessa tecnica di Tristi amori, fa emergere le contraddizioni del personaggio, i suoi lati oscuri, le ambiguità delle pulsioni profonde. Giovanni non impara nulla e ripete gli stessi errori. La famiglia torna a spendere più di quanto incassi, e Giovanni si inventa un secondo lavoro, che coltiva clandestinamente, per far fronte alle spese in eccesso. Si ripropone nel suo ruolo di emarginato bue da lavoro, tutto chiuso nella sua solitudine, ma in fondo contento. Giovanni dà molto in fatica, in denaro, perché non vuole dare nulla in attenzione psicologica, umana, affettiva. Dà tutto il tempo al lavoro, perché in realtà non ha
tempo da dare alla famiglia, non ha nulla da dire e da comunicare. E’ un padre che ha disertato, che ha rinunciato a svolgere il ruolo di padre. In questo testo Giacosa – sperimentatore vero, costruisce un altro prototipo geniale e tutto diverso, quello del dramma corale, con molti personaggi protagonisti, fatto per smottamenti progressivi del dialogo, fondato su lunghi silenzi, i sussurri, i
pianti improvvisi. Come Ibsen e Cechov, sebbene pochi se ne siano accorti, ad eccezione di Visconti, la cui messinscena bisognerebbe forse ristudiare.