Dereck eretz, la “via del mondo”, è il modo in ebraico di indicare il retto cammino, quello che sono invitati a seguire tutti coloro che fanno parte di questo percorso identitario. Eretz in ebraico significa innanzitutto “terra” e per estensione “terra d’Israele” – il cammino conduce alla terra, quella del dono – ma, secondo interpretazioni kabbalistiche, eretz significa anche “desiderio”, simboleggiando quindi “il desiderio primario di procedere nel cammino spirituale che si risveglia in una creatura”.
Facendo riferimento alla tradizione del popolo di Israel e al suo linguaggio, l’autrice racconta – nel risvegliarsi di questo desiderio primario – del proprio percorso di riavvicinamento a questa identità e del parallelo processo di “liberazione” dalle schiavitù psichiche. Dalla figura della moglie di Lot – cristallizzata nella sua impossibilità di procedere nel cammino – si approderà quindi, non senza dolore, a Rachel e alla sua difficile gestazione.
Il racconto, immerso nelle narrazioni bibliche e all’interno di una cornice analitico-filosofica, si offre come testimonianza consapevole del salutare passaggio dalla dimensione autobiografica a quella mitobiografica, intesa come dimensione più ampia in cui si considera iscritto ciascun individuo, e verso la quale, in un’ottica filosofica, terapeutica e di spiritualità laica, s’intende volgere con decisione lo sguardo.
Scrive il Maharal di Praga: “L’uomo è chiamato albero del campo, ma in verità è un albero capovolto, perché l’albero ha le radici in basso, fissate in terra, mentre l’uomo ha le sue radici in alto: la sua radice è l’anima, che è di origine celeste…”. L’albero capovolto come immagine quindi più propria a questo orizzonte, ampio e contenitivo quanto la volta del cielo entro cui viviamo.