L’idea che l’etica pubblica sia oggi circoscritta al diritto penale può sembrare una provocazione che risente di una deformazione professionale nel punto di osservazione. Nondimeno, la permanente messa sotto accusa della classe politica, insieme a quella imprenditoriale, da parte della magistratura non è solo segno di una crisi della politica, ma anche espressione del controllo della sua moralità. In un contesto culturale dove ogni etica tradizionale (cattolici, laici, comunisti, socialisti, liberali eccetera) è ormai declassata a morale privata, e dove il pluralismo e il multiculturalismo impongono che solo il diritto, mediando tra stranieri morali, sia espressione di un’etica pubblica, che pure, finché giuridica, non obbliga in coscienza, il comando più autoritario ed espressivo di un prohibiting non riducibile a onere o a tassa, è quello penale. Senza nulla concedere al pensiero che se una condotta è penalmente irreprensibile sia politicamente corretta, occorre peraltro recuperare le virtù repubblicane senza le quali ogni legge è inerme, come regola senza costume. Tali virtù non sono l’effetto di una macchina giudiziaria dove tutti sono sottoponibili a un controllo di “moralità pubblica” attraverso un processo penale. Questo stato delle cose ha invece prodotto l’effetto di un uso strumentale del processo penale, e dunque una sorta di indiretta privatizzazione della giustizia, usata via via da vari protagonisti come strumento di lotta politica. Se non è detto che la ragione pubblica si esprima solo attraverso una qualche Corte suprema, certo sarebbe grave se l’etica pubblica fosse riconosciuta e praticata solo per effetto dei processi penali che la sanciscono.