Perché si viaggia? Qual è il senso del viaggio e della metafora che si cela dietro il naturale ed inarrestabile desiderio di spostarsi da un luogo all'altro? Si viaggia solo per il piacere di essere "in viaggio", per la mera curiosità di trovarsi di fronte ad orizzonti diversi, per scoprire nuove culture, o non, invece, per la necessità di trovare un punto di equilibrio, una sorta di “centro di gravità” che ci possa aiutare a conoscere meglio noi stessi?
Certamente lo spirito d'avventura gioca un ruolo importante, ma non decisivo, nella nostra scelta di rimetterci ogni volta in discussione affrontando la fatica di un nuovo viaggio, ma tale fatica non può trovare la sua unica ragion d'essere, in quella banale ed esibizionistica soddisfazione che si prova nel poter dire “io c'ero...io ci sono stato!”.
Evidentemente ci deve essere una motivazione più profonda che ci spinge ad avere sempre una valigia in mano e che ci permette di liberare la nostra mente dai fantasmi dell'abitudine.
Ad onor del vero, credo vi sia sempre una pluralità di ragioni differenti, seppur strettamente correlate, che ci inducono a metterci "in viaggio", a prescindere dalla meta.
Infatti, giunti alla fine di un viaggio, spesso ci accorgiamo d'aver viaggiato non, semplicemente, per andare da qualche parte, ma per viaggiare, per provare una nuova emozione, per incontrare qualcuno o fuggire da qualcosa, per conoscere, per cambiare opinione e vincere i pregiudizi, ed infine, oserei dire, principalmente, per indagare nelle profondità del nostro animo.
Fra tutte le metafore che sono state adoperate per spiegare il senso del viaggio nella sua intima connessione al mistero della vita, forse quella di Sant'Agostino sintetizza, meglio di qualunque altra, la ragione profonda che dovrebbe spingere ogni uomo a considerare la fine di un viaggio solo come l'inizio di un altro: “Il mondo è un libro e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina”.