Nei decenni conclusivi del Seicento esplose, nell’ Europa cattolica, una delle ultime questioni «ereticali» dell’età moderna, collegata alla pratica religiosa del quietismo. Maturata in seno alla tradizione mistica e basata in prevalenza sulla passività dell’anima e la perdita di sé, sulla quiete interiore come presupposto pressocché esclusivo dell’unione con Dio, la pratica si poneva in controtendenza con gli assetti normativi e disciplinari della cultura religiosa ufficiale.
In particolare, nella prospettiva istituzionale-giudiziaria, la Chiesa volle impedire che si aprisse, nella coscienza religiosa dei singoli e in nome di percorsi eccezionali segnati dalla comunicazione mistica, uno spazio spirituale autonomo, sottratto al controllo, alla regolamentazione, alla verifica di padri confessori e giudici.
Nell’esaminare il caso siciliano attraverso i processi e le inchieste del Sant’Ufficio, questo saggio vuole anche fornire elementi di riflessione sui legami, diretti o mediati, che l’«infetta dottrina» quietista intrattenne con i nuovi fermenti culturali del XVII secolo. Di fronte alla grande diffusione del misticismo quietista tra i laici - di cui per l’appunto è testimonianza il caso siciliano - la risposta delle istituzioni ecclesiastiche lascia emergere con chiarezza che la questione del potere sulle anime era strategica nella politica del cattolicesimo romano, già insidiato dai processi di laicizzazione.