Pimlico è un cavallo. Un purosangue, una di quelle promesse dell’ippica destinate a trionfare nelle corse e ad assicurarsi un nome e una vecchiaia da stallone di lusso. C’è solo un piccolo problema: quando corre in gare decisive, arriva puntualmente secondo o terzo. La sua storia (e quella di altri purosangue: Marlù, Bendigo, Fantasio…) ci viene raccontata dal decano dei caporazza italiani, un vecchio allevatore di cavalli che ha dedicato la sua vita alla speranza di vederli vincere. Pubblicato per la prima volta nel 1956 da Elio Vittorini nella collana “Gettoni”, La carriera di Pimlico (e quella dei suoi colleghi) è la storia fin troppo umana di chi si trova a fare i conti con se stesso e con il proprio talento. Le frustrazioni, le sconfitte, le delusioni patite sulle piste, sulle erbe dei circuiti, le corse seguite con apprensione dagli spalti degli ippodromi, stagione dopo stagione, sperando sempre che la puntata non sia persa ma possa fruttare qualche lira, qualche soldo in più… Le aspettative degli allevatori diventano una spietata allegoria dell’uomo “dotato”, l’infelice condizione di chi è pronto a salire in groppa a se stesso e prendersi a scudisciate pur di andare più forte, pur di battere gli altri e di evadere dal proprio destino di mediocrità. E forse Pimlico lo sa meglio di tutti, anche di noi che lo guardiamo da dietro una staccionata.