Introdotta nelle Facoltà di Scienze Politiche in epoca fascista, la Dottrina dello Stato ha poi subito l’affronto di essere definita una disciplina politicamente segnata. In realtà, le sue origini riportano alla statistica del Settecento e, specialmente, al dibattito che nella Germania bismarckiana esplose dopo la fondazione dell’Impero. Cosa è ‘Stato’ nel momento in cui gli antichi regni cedono il passo alla Prussia che si fa Impero?
Può esistere uno Stato senza sovranità? E qual è il rapporto tra Stato e diritto? Subisce anche lo Stato gli effetti delle trasformazioni sociali in un’epoca di conflitti di classe? Come influisce la tecnica sui rapporti di potere tradizionali? La centralità di questi interrogativi è evidente; non è un caso che tra le più significative dottrine dello Stato debbano essere ricordate quelle di tre tra i più importanti giuristi della Germania tra Kaiserreich e Weimarer Reichsverfassung: Jellinek, Kelsen, Heller. Ma la dottrina dello Stato richiamava due altre tematiche, quella del rapporto tra centro e periferie (così nella concezione municipalista di Preuß, seguace liberale di Gierke) e quella della costituzione e del suo significato, tanto che non a caso, talvolta, essa poteva apparire nelle vesti di una ‘dottrina della costituzione’, come nel caso di Schmitt, Fraenkel, Smend, Leibholz, Thoma. Su quest’orizzonte, la Dottrina dello Stato è centrale. Lo è anche oggi, nell’epoca della ‘morte dello Stato’, della globalizzazione, delle unioni sovranazionali? Questo saggio vuol accennare una risposta, rappresentando al tempo stesso un pladoyer per la disciplina.
Lo Stato non solo non è morto, pur dovendosene rivisitare le funzioni, ma non è morta nemmeno la sovranità, se interpretata come relativa e non assoluta. Ancor più: solo uno Stato ‘forte’ (ed un conseguente senso dello Stato) può garantire una vita democratica non effimera, una libertà non astratta e una garanzia concreta dei diritti dei singoli.