“Quello che mi fa veramente pensare che il tempo è passato inesorabilmente, è il fatto di ricordarsi di cose che se raccontate, ai nostri figli parrebbero irreali”.
La vita di un uomo ormai settantenne cresciuto nel cuore della Bassa padana, la sua infanzia e la sua giovinezza lontane possono effettivamente sembrare inverosimili ad un giovane lettore di oggi. Parrebbero il frutto di una fantasia sbrigliata - tra Folengo, Ariosto e Giovannino Guareschi - per i continui episodi, i caratteri, i personaggi che hanno del surreale, quasi fossero usciti da una penna poetica e non dalla realtà.
Sarà per questo che l’autore del libro ha scelto un nome di fantasia: ispirato al suo Borgo, la sua Guastalla, centro geografico e ideale di tutte le avventure raccontate. Eppure tutto ciò che queste pagine contengono è pura vita vissuta. Quel mondo è esistito veramente, con la sua povertà e la sua solidarietà, i suoi valori essenziali, l’alto e il basso mescolati insieme, l’irrefrenabile voglia di vivere che vinceva le ombre di morte spesso incombenti.
Titoli come Festa nell’aia, Spagnochìn, La fumana, Pelle di talpa, Pane e anguria non possono ingannare sul tono memoriale, malinconico ma non triste, di questo diario di gioventù. Il nostro Ferrante ha scelto di raccontare quel mondo e la sua vita quotidiana – apparentemente poco significante e monotona, ma in realtà ricca di umanità e di senso delle cose - prima di tutto per i suoi figli e i suoi nipoti. Per ricordare loro che “è nella miseria che si facevano cose degne di essere ricordate”.
Ovvero che dal letame nascono i fior, come diceva quel poeta.
Ma sarebbe meglio dire nascevano. Perché è inesorabilmente lontano e irrecuperabile – anche se vivissimo nella memoria - quel tempo in cui i ragazzi avevano sempre, come dice l’autore, l’arcobaleno davanti agli occhi.