Si dice che la vita comporta un incessante passaggio, da un modo di essere a un altro modo di essere e, infine, dalla vita alla morte. Si può anche dire che proprio intorno a questo passaggio si sono articolate le diverse culture, con i loro miti e i loro riti, intesi ad arginare, interpretare e rendere funzionale l’ansia che ogni passaggio comporta.
Anche nella civiltà contemporanea, in cui il passaggio sembrerebbe rimosso dalla continuità tecnologica, resta la profonda esigenza di dare un senso al cambiamento e alle conseguenti istanze formative, come dimostrano, per esempio, gli interrogativi che si addensano intorno alla Rete e alle sue prospettive.
In questo libro il passaggio, individuale e collettivo, viene analizzato sulla base di una ipotesi emersa dalla ricerca antropologica del secolo scorso: che per passare, per cambiare, sia necessario uscire fuori di sé, attraversare un periodo di margine e, infine, tornare presso di sé, con nuove potenzialità. La “mossa del cavallo”, che nel gioco degli scacchi serve per aggirare le opposte difese, chiama in causa una complessa procedura concettuale, linguistica e operativa, che si estende dai “riti di passaggio” di Arnold Van Gennep alla “crisi della presenza” di Ernesto de Martino, dalla “sovradeterminazione del segno” di Roland Barthes alla “commutazione di codice” di Umberto Eco.
L’antropologia del “passaggio” si configura, quindi, come una incrementale alternativa alla sociologia del “processo”, coinvolgendo la concezione della filosofia come “esercizio spirituale” e la millenaria diatriba tra parola e immagine, sino all’attuale riflessione sui new media.
In definitiva, se “vivere significa passare”, il problema, ieri come oggi, è quello di quando, come e (perché no?) con chi passare.