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L’Opera in casa – Da Richard Wagner a Thomas Adès, 100 opere in dvd

La fruizione dello spetta­colo lirico è cambiata molto: fino a pochi de­cenni fa si andava ad assistere a un'opera sa­pendo che si sarebbe ascoltata un'orchestra diretta da tale diret­tore e in scena ci sarebbero stati dei cantanti più o meno bravi e più o meno famosi. Ah sì, ci sarebbe stata una scenografia più o meno “scenografica” (ricostruzioni ardite, prospettive audaci, luci suggestive) e dei costumi più o meno “ricchi”. E il re­gista? Beh avrebbe detto ai cantanti dove mettersi e come muoversi. Quasi niente di più.
C'erano state sì delle eccezioni come Visconti (proveniente dal cine­ma) o Strehler (dal teatro di prosa), che avevano liberato il teatro lirico ita­liano del secondo '900 dai retaggi ottocenteschi (tele dipinte, cartapesta, attrezzi di magazzino, ambientazioni convenzional­i), mentre altri (Pizzi, Zeffirelli, a suo modo Ron­coni) lo avevano fat­to ritornare alla sontuosa dimensione delle sue origini elitarie nella spettacolarità esteriore, ma rendendolo in parte imper­meabile alle domande del­la contemporaneità.
Ma è con Chéreau e la sua “scandalosa” rilettura del Ring wagneriano del centenario (Bayreuth 1976) post quem la regia lirica non è più la stessa. Fino ad approdare oggi al tanto vituperato Regietheater, (oltre oceano definito con disprezzo eurotrash) in cui si ha talora il sospetto che il regista abbia una sorta di osti­lità edipica nei riguardi di com­positore e li­brettista. Ma anche qui è necessario distinguere tra innovazioni ar­tificiose e forzate e ricerca di nuovi nes­si fra musica, dramma, spettacolo e attualità. Così come è successo per il teatro di prosa: chi accetterebbe oggi uno Shakespeare recitato come si faceva sessant'anni fa? E non parliamo del balletto: lo Schiaccianoci di Mark Morris, la Giselle di Mats Ek o Il lago dei cigni di Matthew Bourne (per citare tre esempi a caso) sono coreografie che, anche senza i tutù e le ballerine sulle punte, portano a teatro masse ingenti di spettatori.
Per di più, il pubblico dell'opera sta cambiando. Il vecchio zoccolo duro formato dagli abbo­nati tradizionali si sta estin­guendo per via naturale, ma globalmente è aumenta­to, e di molto, il nuovo pubblico, che frui­sce di uno spettacolo tra­mite i mezzi di diffusione contemp­oranei (televisione, cinema, internet, supporti digitali).
È dalla fine dell'ottocento che la musica non si faceva più sul pianoforte del salotto, ma proveniva da quelle scatole sonore che erano la radio prima, il fonografo poi. Per ottanta e più anni abbiamo studiato, ci siamo entusiasmati, abbiamo palpitato per le note che scaturivano magicamente da quei solchi neri.
Fino a due decenni fa in casa si ascoltavano soltanto i dischi. C'era sì qualche sparuta trasmissione alla televisione (le prime della Scala per l'Italia, ad esempio), ma la fruizione dell'opera lirica a casa era quasi esclusivamente audio: Callas, Corelli, Tebaldi, Del Monaco per la stragrande maggioranza dei melomani erano una fotografia sulla copertina di un vinile.
Poi sono arrivate le prime registrazioni video sulle terribili cassette vhs, in seguito i dischi digitali e ora le trasmissioni live in alta definizione. E il pubblico che ora può “assistere” a uno spettacolo – vederlo, non soltanto ascoltarlo – è enormemente aumentato. Una produzione al Metropo­litan Opera House di New York, ad esempio, ha mediamente una dozzina di repliche con una sala quasi sempre esaurita. Ciò significa che circa 30 mila spettatori vi assistono dal vivo. Ma la stessa rappresentazione viene tra­smessa in migliaia di sale cinematografiche sparse ne­gli Stati Uniti e nel resto del mondo, passa nei canali te­levisivi tematici e viene venduta in dvd. Si può quindi ragio­nevolmente supporre che il numero di spettatori ef­fettivi venga ampiamente decuplicato. Ed è un pub­blico non sempre specialistico, spesso giovane e abi­tuato a un tipo di spetta­colo non tradizionale e complesso.
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