La fruizione dello spettacolo lirico è cambiata molto: fino a pochi decenni fa si andava ad assistere a un'opera sapendo che si sarebbe ascoltata un'orchestra diretta da tale direttore e in scena ci sarebbero stati dei cantanti più o meno bravi e più o meno famosi. Ah sì, ci sarebbe stata una scenografia più o meno “scenografica” (ricostruzioni ardite, prospettive audaci, luci suggestive) e dei costumi più o meno “ricchi”. E il regista? Beh avrebbe detto ai cantanti dove mettersi e come muoversi. Quasi niente di più.
C'erano state sì delle eccezioni come Visconti (proveniente dal cinema) o Strehler (dal teatro di prosa), che avevano liberato il teatro lirico italiano del secondo '900 dai retaggi ottocenteschi (tele dipinte, cartapesta, attrezzi di magazzino, ambientazioni convenzionali), mentre altri (Pizzi, Zeffirelli, a suo modo Ronconi) lo avevano fatto ritornare alla sontuosa dimensione delle sue origini elitarie nella spettacolarità esteriore, ma rendendolo in parte impermeabile alle domande della contemporaneità.
Ma è con Chéreau e la sua “scandalosa” rilettura del Ring wagneriano del centenario (Bayreuth 1976) post quem la regia lirica non è più la stessa. Fino ad approdare oggi al tanto vituperato Regietheater, (oltre oceano definito con disprezzo eurotrash) in cui si ha talora il sospetto che il regista abbia una sorta di ostilità edipica nei riguardi di compositore e librettista. Ma anche qui è necessario distinguere tra innovazioni artificiose e forzate e ricerca di nuovi nessi fra musica, dramma, spettacolo e attualità. Così come è successo per il teatro di prosa: chi accetterebbe oggi uno Shakespeare recitato come si faceva sessant'anni fa? E non parliamo del balletto: lo Schiaccianoci di Mark Morris, la Giselle di Mats Ek o Il lago dei cigni di Matthew Bourne (per citare tre esempi a caso) sono coreografie che, anche senza i tutù e le ballerine sulle punte, portano a teatro masse ingenti di spettatori.
Per di più, il pubblico dell'opera sta cambiando. Il vecchio zoccolo duro formato dagli abbonati tradizionali si sta estinguendo per via naturale, ma globalmente è aumentato, e di molto, il nuovo pubblico, che fruisce di uno spettacolo tramite i mezzi di diffusione contemporanei (televisione, cinema, internet, supporti digitali).
È dalla fine dell'ottocento che la musica non si faceva più sul pianoforte del salotto, ma proveniva da quelle scatole sonore che erano la radio prima, il fonografo poi. Per ottanta e più anni abbiamo studiato, ci siamo entusiasmati, abbiamo palpitato per le note che scaturivano magicamente da quei solchi neri.
Fino a due decenni fa in casa si ascoltavano soltanto i dischi. C'era sì qualche sparuta trasmissione alla televisione (le prime della Scala per l'Italia, ad esempio), ma la fruizione dell'opera lirica a casa era quasi esclusivamente audio: Callas, Corelli, Tebaldi, Del Monaco per la stragrande maggioranza dei melomani erano una fotografia sulla copertina di un vinile.
Poi sono arrivate le prime registrazioni video sulle terribili cassette vhs, in seguito i dischi digitali e ora le trasmissioni live in alta definizione. E il pubblico che ora può “assistere” a uno spettacolo – vederlo, non soltanto ascoltarlo – è enormemente aumentato. Una produzione al Metropolitan Opera House di New York, ad esempio, ha mediamente una dozzina di repliche con una sala quasi sempre esaurita. Ciò significa che circa 30 mila spettatori vi assistono dal vivo. Ma la stessa rappresentazione viene trasmessa in migliaia di sale cinematografiche sparse negli Stati Uniti e nel resto del mondo, passa nei canali televisivi tematici e viene venduta in dvd. Si può quindi ragionevolmente supporre che il numero di spettatori effettivi venga ampiamente decuplicato. Ed è un pubblico non sempre specialistico, spesso giovane e abituato a un tipo di spettacolo non tradizionale e complesso.