Quando Nicolò Carandini, plenipotenziario della nuova Italia nata dal crollo del fascismo, arrivò a Londra circondato dai suoi collaboratori, il funzionario di modesto rango incaricato di riceverlo con la massima freddezza possibile, fu colto da un attimo di sgomento. Elegantissimo, alto, bello (dicevano che assomigliava a Gary Cooper), un grand seigneur che irradiava fascino e classe anche a distanza, il conte Carandini non rientrava affatto nei modelli mediterranei in cui gli anglosassoni avevano ristretto gli italiani, in categorie abbastanza offensive, di qualsiasi provenienza e ceto fossero. Sembrava – e in fondo lo era – un lord, più vero di quelli che frequentavano la camera dei pari: qualcosa che per un inglese non poteva esistere in natura. Così al funzionario non rimase altro che pronunciare una sola parola, rimasta celebre: «Impossible».
Se Carandini era chiamato scherzosamente alla Farnesina “Lord Carandini”, l’autore di questo libro, un notissimo giornalista, era chiamato “Sir Edgardo” nei giornali in cui ha lavorato come corrispondente e come inviato da Londra – il “Corriere della Sera” e “La Repubblica”. Chi meglio di lui avrebbe potuto scrivere questo libro che tratta principalmente, ma non solo, di una malattia contagiosa, ma con effetti quasi sempre benefici, quando non si aggravava, diffusa nelle classi dirigenziali europee: l’anglofilia. Per due o tre secoli gli spiriti indipendenti e nobili della vecchia Europa, che soffrivano le angherie di un potere arbitrario e a volte assoluto, ritrovavano le speranze di un futuro migliore guardando all’Inghilterra, alla lotta dei suoi cittadini in difesa delle libertà personali, a uno stato che aveva raggiunto quello che era il sogno di tutti gli studiosi di politica. Un quasi perfetto equilibrio tra poteri, in modo che nessuno prevaricasse. O almeno così sembrava.
Come questa passione per l’Inghilterra, nata come passione per la libertà e per un popolo che aveva sempre combattuto il potere arbitrario, sia andata con il tempo modificandosi in anglomania e scendendo dai nobili propositi iniziali si sia trasformata in un’ossessione un po’ ridicola per tutto quello che portava un marchio inglese, in particolare scarpe, vestiti, cravatte, camicie, oggetti feticcio che venivano indossati ed esibiti in occasioni e in luoghi lontanissimi da quelli originali, causando tutta una serie di fraintendimenti, è raccontata qui per esteso, in maniera impareggiabile. Uno degli aspetti più esilaranti della vicenda – non un affare da poco, ma una vera e propria infatuazione di massa – è stata l’ineffabile interpretazione italica del mondo anglosassone, che ha dato all’anglofilia e all’anglomania un tocco tutto particolare e nostrano, che non ha avuto paragoni in Europa. Ma l’ironia di Bartoli, che è stato in molti casi spietato, ogni tanto lascia il posto a una qualche indulgenza. Perché i protagonisti di questo libro siamo tutti noi.