Non dimenticherò mai i giorni, in cui rendeva la visita del lunedì a Proudhon nella prigione di Santa Pelagia che rinchiudeva pure altri uomini politici. Noi partivamo dai punti più lontani di Parigi, giungevamo dinanzi alla fortezza verso le cinque, vi si penetrava con passaporto regolare; una stanza nuda, chiara, ariosa, isolata, ci serviva di sala; vi apparecchiavamo noi stessi la mensa, e il nostro disprezzo per tutti i Governi del momento ci faceva più liberi che non lo fosse Luigi Napoleone all’Eliseo. Era l’indomani del 13 giugno 1849, cioè della sconfitta delle due democrazie di Francia e d’Italia: la prima era stata vinta resistendo alla spedizione di Roma e l’alta Corte di Versailles le aveva tolti trentatre deputati; l’altra era stata dispersa dalla restaurazione del Papa sotto la bandiera repubblicana della Francia. I due più grandi idiotismi del mondo moderno, la monarchia francese e il papato italiano, si rialzavano a nome della libertà, dell’eguaglianza e della fratellanza; i regii di Parigi predicavano la vera libertà; i Principi italiani si dicevano legittimi, amati e venerati, grazie alle baionette austro-repubblicane, e la commedia essendo perfetta e il controsenso universale, n’eravamo lietissimi.