Da quel novembre del 1975 in cui fu ucciso, Pier Paolo Pasolini si è trasformato in un fantasma che si aggira per l’Italia. Da morto, lo scrittore friulano è stato usato da tutti: la destra, la sinistra, i cattolici, gli estremisti, i giustizialisti, i complottisti e i militanti della decrescita felice. Ognuno prende la parte che più gli fa comodo e butta via il resto.
È stato detto che Pasolini ha previsto ogni cosa e oggi le sue analisi sono vissute come profezie, ma le sue parole scivolano sulla superficie delle nostre coscienze come balsami. Nessuna abrasione, nessuno scuotimento. Gli schiaffi che dava (e riceveva) sono diventati morbide carezze. Pasolini si è fatto specchio delle nostre brame, ognuno vi si vede più bello e pulito.
Nicola Mirenzi appartiene alla generazione di chi non c’era nell’Italia di Pasolini, ma ha «vissuto con lui» perché Pasolini è onnipresente ancora oggi, sotto forma di spettro, icona pop, mito, oggetto di un’operazione di «beatificazione» che nasconde in realtà un atteggiamento superficiale e sostanzialmente indifferente verso la sua opera e le sue battaglie. Nel quarantennale della morte appare quindi impossibile parlare di Pasolini se prima non si distingue l’autore dal racconto edulcorato (e tossico) che ne è fatto. Perché un conto è Pasolini, un altro è il pasolinismo. Una cosa è lo scrittore, un’altra la sua leggenda. E solo il ritorno alla sua opera può riscattare il chiacchiericcio intorno alla sua immagine. Mettendo il testo contro il pretesto. L’opera contro il mito. Pasolini contro Pasolini.