Giuseppe D'Avanzo è morto due anni fa, mentre si allenava in bicicletta. In quei giorni abbiamo scoperto che l'Italia aveva perso il campione unico di un giornalismo migliore. I giovani hanno parlato molto di lui e del suo "metodo": scavo delle prove e dei documenti, verifiche multiple, approfondimento. Hanno cercato nella sua storia professionale il motivo per tentare ancora una volta la pratica di un mestiere antico e trascurato: il giornalismo di inchiesta e "guardiano" del potere. Questo testo prova a rispondere ad alcune delle loro domande e a spazzare via quel tanto di distorsione che ha accompagnato i giorni del cordoglio: per esempio l'idea che quel giornalista fosse un "manettaro". Nel corso della sua vita Giuseppe D'Avanzo è stato accompagnato anche da insinuazioni sulla genuinità del suo lavoro e da vere e proprie vociferazioni infamanti. Questo libro rammenta agli smemorati che quelle parole erano non vere o mal indirizzate. Ma la storia di P. che leggete in queste pagine è soprattutto il ricordo di una vita densa, vista attraverso la memoria di un amico che gli ha voluto bene, essendone ricambiato. Prima di essere un giornalista e un "monumento", Giuseppe D'Avanzo è stato un atleta, un giovane degli Anni '70 e un cronista che si è formato seguendo le guerre di camorra a Napoli, il Caso Tortora, l'economia distorta di quella città. Ha fatto i suoi primi scoop all'età in cui altri balbettano l'abc del mestiere. È stato cronista di fatti, di cose, del potere. Nessuna vanità mondana. Un uomo che non andava in televisione e che leggeva molto. Ma anche un amante delle cose raffinate e importanti della vita. Una fra tutte: il mare.