La questione del rapporto tra i due Testamenti è il vero grande problema della teologia biblica.
Antica come il cristianesimo, e già interna allo stesso Nuovo Testamento, essa è stata affrontata da insigni biblisti.
Ma, paradossalmente, sono proprio i neotestamentaristi ad avere maggiore difficoltà nel cimentarsi, probabilmente per l'enorme autorevolezza di cui il Nuovo Testamento viene rivestito, dato che gli si riconosce il ruolo di offrire un senso cristiano all'Antico.
Il tema ha implicazioni teologiche: come la nuova alleanza si relaziona con l'antica?
Implicazioni cristologiche: l'obbedienza alla Torah è via di salvezza indipendente da Cristo?
Implicazioni ecclesiologiche: la Chiesa sostituisce Israele?
Implicazioni ermeneutiche: Gesù di Nazaret è il punto di riferimento definitivo nell'interpretazione delle Scritture?
Implicazioni sul dialogo interreligioso: in che senso Israele è depositario di rivelazione?
Implicazioni sulla teologia biblica, perché «essa parte dal presupposto che la Bibbia cristiana consti di una unità teologica formata dall'unione canonica dei due Testamenti» (B.S. Childs).
Lo studio è organizzato in tre parti. La prima si propone di indagare come e attraverso quali modelli la teologia cristiana abbia compreso nei secoli la relazione esistente tra Antico e Nuovo Testamento.
La seconda individua le fonti bibliche su cui si radicano tali schemi.
La terza tenta di valutare se le categorie cristiane che hanno espresso il rapporto tra i due Testamenti siano effettivamente fondate sulla Sacra Scrittura e in che misura esse possano ritenersi ancora valide o ci sia spazio per nuove prospettive d'interpretazione.
Nella conclusione l'autore propone il modello «dialogico» come risposta al problema del rapporto, facendo ricorso a una categoria di Lévinas, quella del Volto, che supera «l'idea dell'Altro in me» e richiede «un insieme di faccia a faccia».