Il mercato alimentare, dalla commercializzazione delle sementi alla distribuzione dei prodotti commestibili, è in mano a poche potenti multinazionali e a grandi catene di supermercati. Un sistema globalizzato che ha tagliato il prezzo di quello che mettiamo nei piatti, ma a quale costo?
Nei paesi avanzati ci si ammala di cibo e si sprecano tonnellate di alimenti, mentre nei paesi poveri quasi un miliardo di persone continua a morire di fame. La Terra esausta anche a causa dell'agricoltura che si nutre di petrolio, risorsa scarsa e inquinante.
Perpetuare questo modello ed espanderlo per far fronte alle mutate abitudini alimentari di milioni di cinesi, indiani o brasiliani, che arricchendosi mangeranno sempre più come noi, non è sostenibile. Lo stanno predicando scienziati, visionari e attivisti. Ma soprattutto lo capiscono sempre più persone che si organizzano e agiscono per cambiare le cose dal basso. Un movimento mondiale di contadini di città che coltivano pomodori sui tetti e fragole negli orti collettivi, di consumatori consapevoli che comprano a chilometro zero e costituiscono gruppi di acquisto solidale (GAS): in altre parole di cittadini che si ribellano alla "dittatura dello scaffale".
Siamo alle prese con l'ultima ossessione delle annoiate élite metropolitane o davvero questi fenomeni stanno contribuendo a riscrivere l'economia alimentare del pianeta?