Il carcere è, da sempre, un “campo d’esperienza decisivo” per apprezzare la capacità di un ordinamento giuridico di garantire una tutela effettiva di tutti quei diritti fondamentali che definiscono “lo spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana”.
Privilegiando simile prospettiva, l’autore si propone di verificare il grado di conformità delle norme sull’ordinamento penitenziario ai precetti costituzionali e convenzionali che riconoscono e garantiscono i diritti alla salute, all’affettività e alla corrispondenza libera e segreta. Si tratta di diritti fondamentali e universali dalla cui sfera di intangibilità scaturisce un ventaglio di situazioni giuridiche soggettive tra loro intimamente connesse. Se, infatti, la tutela della salute mira a garantire non semplicemente l’assenza di malattia, ma uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, allora essa è imprescindibilmente legata alla tutela dei rapporti parentali e delle relazioni affettive, dal momento che l’interruzione dei contatti con i propri cari è quasi sempre causa del “crollo” psicofisico del detenuto. Dal canto suo, il diritto al mantenimento delle relazioni affettive presuppone il riconoscimento della libertà di corrispondere e di comunicare riservatamente. Soltanto modalità di contatto che assicurino la riservatezza della comunicazione, infatti, possono consentire ai detenuti di mantenere e di sviluppare i rapporti affettivi nel modo più normale.
Tutto il lavoro, quindi, è permeato dalla convinzione che la tutela della salute, della sfera degli affetti e della libertà di corrispondere e di comunicare riservatamente contribuisca a garantire la “dimensione basica” della dignità umana. In tali diritti elementari, infatti, si riflettono bisogni comuni a tutte le persone, il cui soddisfacimento è necessario al raggiungimento, anche in carcere, di “una vita minimamente degna”.