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Shuya Shuya

Shuya significa piano ed è stata una delle prime parole arabe che ho imparato ad usare per rispondere alla curiosità di qualche pastore incontrato sulle strade di montagna all’interno del Marocco. Non riuscivano a capire dove volessi andare con un motorino e uno zaino legato dietro il sellino, ma soprattutto perché lo stessi facendo. Non che fosse del tutto chiaro neanche a me, ma quella prima parola di arabo ripetuta due volte per sottolineare la mia ridottissima velocità in salita provocava ogni volta grandi risate e mi sembrava sempre più un’ottima spiegazione.
Ero andato in Marocco a trovare un amico con una vaga idea di comprare a poco una vecchia moto da enduro per viaggiare verso il deserto, ma la verità è che ho sempre amato viaggiare in modo disorganizzato per lasciare spazio all’improvvisazione ed era appunto quello che mi ero trovato a fare. Giunto a Rabat con le mie limitate risorse economiche ero riuscito a prendere solo un motorino cinese e nonostante parecchi dubbi sulla sua affidabilità avevo elaborato un piano di viaggio di tutto rispetto. Non che credessi sul serio di riuscire a fare ritorno in sella alla mia nuova cavalcatura, ma avevo presto deciso che l’unico modo di scoprire fino a dove fosse possibile arrivare era provare a farlo.
Sono così partito da Rabat verso le montagne del Rif, ho attraversato la regione di Ketama e sono sceso sulla costa mediterranea passando da Fes e Meknes sulla via del ritorno. Dopo una settimana sulla strada avevo trovato la fiducia necessaria per partire verso sud. Avevo aggiunto al mio equipaggiamento una tanica per la benzina, una visiera per difendermi dalla sabbia e una camera d’aria di scorta ed ero pronto ad andare nel cuore del paese o almeno a tentare di farlo. Tan Tan, un paese alla fine della civiltà, alle porte del Sahara Occidentale era diventato il mio obiettivo senza che vi fosse alcuna ragione particolare, se non il fatto che fosse alla fine della mia mappa e che sembrasse tanto lontana. Non avevo comunque scelto la strada più breve per raggiungerla, anzi non l’avevo scelta proprio e seguendo solo l’ispirazione ero ripartito da Rabat nella direzione opposta verso il deserto sabbioso al confine con l’Algeria.
Per una coincidenza mi ero trovato a ripartire proprio all’inizio del Ramadan e per tutto il mese successivo mi sono a volte trovato a rispettare il digiuno per mancanza di alternative, ma anche ad apprezzare immensamente l’ospitalità dei marocchini che condividevano con me il momento al calar del sole quando potevano finalmente mangiare qualcosa. Tra oasi, palme e paesaggi da fiaba mi sono trovato a perdere il senso del tempo e a restare in sella tante ore dimenticando persino di sgranchirmi le gambe. Stavo trovando quello che cercavo e superava ogni mia aspettativa. Dopo le dune di Merzouga, le gole del Dades, Ouarzazate e la vallata di Zagora, affascinato dalla catena dell’Atlante mi sono trovato a ritornare a nord verso Marrakech quando ero ormai vicino alla meta per tentare i passi più alti del paese. Sono rimasto bloccato in mezzo alle montagne e gli imprevisti sono diventati l’occasione per incontri indimenticabili che hanno scacciato ogni preoccupazione. Sono riuscito infine a valicare l’Atlante e scendendo lungo la costa oceanica sono arrivato fino a Tan Tan.
Dopo duecento chilometri in un vuoto assoluto temevo fossero gli effetti di un miraggio quando ho visto apparire due enormi cammelli di cemento all’ingresso del paese. Normalmente mi sarebbero parsi di dubbio gusto, ma in quel momento, dopo un mese passato per strada coltivando l’idea di raggiungere quel puntino sulla mappa che tanto mi aveva incuriosito, mi sono sembrati bellissimi. Ero così disidratato che sono rimasto in mezzo alla strada a guardare il mio piccolo motorino in mezzo ai due giganti di pietra, e ci sono rimasto a lungo. Per fortuna non c’era molto traffico da quelle parti….

Per vedere delle foto del viaggio: chiccoatw.altervista.org
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