"Signore delle lacrime" è uno degli appellativi di Śiva, la potente divinità che con Brahmā e Viṣṇu forma il pantheon induista. Brahmā è il creatore dell'universo, Viṣṇu è il suo conservatore, Śiva ne è il distruttore. Brahmā è poco più di un principio primo, mentre le ragioni della devozione per Viṣṇu, colui che preserva il mondo, appaiono intuibili. Meno, si direbbe, quelle che spingono a venerare Śiva, il distruttore. Ma dalla distruzione scaturisce la rigenerazione, e allora Śiva, dalle sue antichissime rappresentazioni terrificanti, con il passare del tempo si è trasformato in un dio della rinascita. Attorno a questa suggestione spirituale si coagulano i temi di un racconto che mescola narrazione, memoria, riflessione sulla letteratura e gli dèi. La ragione prima del fascino di Śiva risiede in una ambiguità profonda: distruttore e rigeneratore, dio dell'ascetismo e della rinuncia possiede, allo stesso tempo, una carica erotica dirompente e, a volte, incontrollabile; nemico di ogni debolezza e temuto dagli altri dèi per il suo distacco sprezzante, può vivere passioni selvagge; ricoperto dalle ceneri della cremazione e assorto in posizione yogica, dai suoi capelli nascono i vivi flutti del Gange, il più sacro dei fiumi. Una divinità di contrasti seducenti, capace di risvegliare consonanze profonde anche nella sensibilità occidentale.
Il libro di Franchini non è, però, un saggio su Śiva e tanto meno il resoconto di un viaggio in alcune celebri località dell'India del nord. L'India e i suoi dèi sono il pretesto per una meditazione sulla morte e un apparente bilancio sulla vita che ogni uomo, giunto a un certo punto dell'esistenza, sente di dover fare, senza pretendere di riuscirci davvero ma lasciandosi attraversare da suggestioni, impressioni, letture, brividi di ricordi o di premonizioni, immagini di luoghi infestati da ogni forma di falsità e tuttavia impregnati di sacro in ogni più intima fibra.