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Il licenziamento del dipendente pubblico prima e dopo il Jobs Act

Il licenziamento del dipendente pubblico, nell’ambito della costante evoluzione della disciplina del pubblico impiego, è argomento di grande attualità; esso si inserisce in un più ampio dibattito, in atto ormai da tempo, sugli strumenti più adeguati per consentire alla pubblica amministrazione di recuperare efficienza e produttività, tra i quali, appunto, la possibilità di licenziare “liberamente” i dipendenti pubblici “nullafacenti”.Un rinnovato interesse per l’argomento è sorto a seguito dell’emanazione della legge n. 92/2012 (c.d. riforma “Fornero”). Quest’ultima infatti, intervenendo sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ha riaperto un interessante dibattito – che sembrava ormai tendenzialmente consolidato, almeno in giurisprudenza – sulle conseguenze dell’eventuale illegittimità del recesso intimato dalla pubblica amministrazione, e in particolare sull’applicabilità dell’art. 18 al lavoro pubblico. Ci si è chiesti, sin dai primi commenti, se l’art. 18 dello Statuto, unica norma che disciplina le conseguenze dell’illegittimità del recesso nell’ambito del lavoro pubblico (v. infra), debba trovare applicazione nella sua versione novellata o in quella antecedente alla legge Fornero (infra, cap. III). Infatti, stando alla previsione dell’art. 1 della legge n. 92/2012, le innovazioni apportate dalla riforma non dovrebbero essere immediatamente applicabili anche al lavoro nella pubblica amministrazione; la giurisprudenza però, come si vedrà, si è orientata in senso diverso.Una ulteriore difficoltà interpretativa, forse ancor più ardua della precedente, si è creata a seguito dell’emanazione della recente delega legislativa in materia di lavoro (legge 10 dicembre 2014, n. 183; c.d. Jobs Act), che ha avuto una prima, rapida attuazione, mediante il decreto delegato n. 23/2015 in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti e nuova disciplina dei licenziamenti. La legge delega, nella parte dedicata alla revisione della disciplina del recesso individuale (art. 1, comma 7, lett. c) non chiarisce affatto il punto relativo all’applicazione al pubblico impiego delle nuove tutele per il lavoratore illegittimamente licenziato: tutele che prevedono, rispetto al (recente) passato, e cioè alle modifiche del 2012, il contenimento della reintegrazione ad ipotesi specifiche e l’espansione della garanzia meramente risarcitoria.Non essendovi alcuna previsione nella legge delega n. 183/2014, era prevedibile che nemmeno il decreto delegato si esprimesse sul punto, probabilmente per evitare il rischio di eccedere dalla delega ricevuta; e tuttavia, la circostanza che il Governo abbia disatteso il suggerimento, contenuto nel parere della Commissione parlamentare, di esplicitare l’esclusione del pubblico impiego (v. infra, cap. III) mostra chiaramente che l’orientamento del legislatore è stato quello di regolamentare la materia limitatamente al lavoro nell’impresa privata.Tuttavia è indubbio che la mancanza di precise indicazioni in materia abbia incrementato ulteriormente le incertezze interpretative: ciò nondimeno, l’opportunità di avere una disciplina certa e inequivocabile per le conseguenze dell’illegittimità del recesso individuale dal contratto di lavoro nel settore pubblico è molto evidente, se si considera che la più recente legislazione in tema di contenimento del costo del personale pubblico ha inserito – talora in contesti non appropriati – ulteriori ipotesi di licenziamento individuale di carattere “oggettivo”.Ad esempio, è stato lasciato alle amministrazioni un margine di intervento, più o meno ampio, al fine di far cessare unilateralmente rapporti di lavoro di dipendenti che siano già in possesso dei requisiti pensionistici (cfr. cap. II). In quest’ultimo caso, peraltro, il più recente indirizzo legislativo, volto ad eliminare completamente la reintegrazione nel posto di lavoro per i licenziamenti economici, non troverà applicazione, non fosse altro per la circostanza che il recesso per raggiungimento della
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