Preceduta, e accompagnata, da polemiche di vario genere e in sedi svariatissime – dalle aule parlamentari agli organi di informazione agli organismi rappresentativi della magistratura e non solo di quella ordinaria – è entrata in vigore, circa quattro mesi fa, la c.d. riforma della responsabilità dei giudici: in realtà, un rimaneggiamento di quella in vigore fin dal 1988, apportato con la legge n. 18 del 2015. Tra i fautori della riforma – ivi compreso il Governo in carica – si sono variamente rappresentate l’esigenza di provvedere ad un dovuto adeguamento dell’ordinamento nazionale alle prescrizioni provenienti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e quella di tramutare la tutela del cittadino – vittima di errori o violazioni di legge in cui sia incappato un magistrato – dalla mera parvenza di tutela nella quale si è tradotta l’applicazione della legge n. 117 del 1988, soprattutto in virtù di una interpretazione della nostra corte di legittimità relativamente all’ambito della c.d. clausola di salvaguardia ed ai caratteri della “colpa grave” del magistrato come tipizzati nella detta legge, in una tutela effettiva e magari attivabile meno farraginosamente.