Che cosa significa «noi»? Come si stratificano le appartenenze identitarie che, cristallizzando un sistema di confini e di soglie in coppie oppositive (uomo-donna, uomo-animale, bianco-nero, civiltà-barbarie) portano alla gerarchizzazione del vivente e alla creazione di sistemi politici, religiosi e ideologici? Come si legittimano i molti cerchi di gesso entro i quali perpetuiamo la nostra narrazione del mondo, fino a farli apparire ai nostri stessi occhi non piú culturali, ma naturali e innati? Quando il noi buono, positivo, diventa disprezzo dell'altro, fino a volgersi in sterminio? Da queste domande prende avvio un dialogo tra i due autori: un genetista noto nel mondo per aver dimostrato l'inservibilità del concetto di razza applicato agli uomini e una studiosa che da tempo si occupa della testimonianza dei genocidi del Novecento. Si apre cosí un album di famiglia che include i 10 000 anni in cui Homo sapiens sapiens , dopo aver soppiantato le altre specie umane, ha codificato l'egoismo e la sopraffazione in istituzioni sociali e politiche, basate sulla proprietà privata, la guerra e lo schiavismo. Ma, spingendo lo sguardo piú oltre, fino alla famiglia originaria, scopriamo altri modi del noi che non prevedevano gerarchie sociali: una cultura che l'istituirsi di un noi egemone - bianco, maschio, dotato di logos - ha reso necessario dipingere come un'infanzia di bruti.